Un milione di persone a Roma il 4 ottobre in sostegno al popolo palestinese.
Ormai non si torna più indietro.
Blocchiamo tutto per la Palestina, cambiamo tutto.
Il 4 ottobre, a Roma, le strade della città sono state attraversate da una vera e propria marea. I viali erano gremiti di famiglie, lavoratori e lavoratrici, bambinɜ, studentɜ: non assistevamo a una partecipazione così ampia da anni, e siamo ancora profondamente emozionati per quella straordinaria giornata di lotta collettiva.
Dopo l’euforia, però, è arrivato il momento di fermarsi, riflettere e confrontarsi su quanto accaduto, per comprendere fino in fondo il significato che il 4 ottobre ha avuto per tuttɜ noi.
Questa riflessione è per noi fondamentale: serve a capire come si attivano e si sviluppano certi processi, ma soprattutto è necessaria per fare in modo che l’energia e la forza – profondamente politiche – sprigionate quel giorno non vadano disperse.
Sono ormai due anni, se non di più, che attraversiamo le piazze di tutta Italia, che animiamo scuole e università, che ci organizziamo nei luoghi di lavoro per denunciare il genocidio in atto, per sostenere il popolo palestinese.
Fin dall’inizio, nonostante il dibattito pubblico fosse completamente orientato a distogliere l’attenzione dalle politiche coloniali di Israele e dalla sua aggressività militare, ci siamo impegnati a costruire un discorso politico, e non solo umanitario, su ciò che stava accadendo; a riconoscere alleanze e complicità; a indagare gli interessi economici che muovono la macchina bellica; ma soprattutto a tenere ben presente che la lotta di liberazione della Palestina è una lotta internazionale, che tocca tutte e tutti noi.
In questi due anni abbiamo ricevuto immagini drammatiche da Gaza e dalla Cisgiordania, nella complicità e nel silenzio generale – primo fra tutti quello del nostro governo. Un silenzio che si è presto trasformato in un appoggio esplicito e incondizionato all’azione genocidaeia dello Stato di Israele, non solo sul piano ideologico: l’Italia è oggi il terzo paese al mondo – dopo Stati Uniti e Germania – per vendita di armi a uno Stato responsabile di crimini contro l’umanità.
Nonostante tutto, dobbiamo riconoscerlo: in questi anni portare avanti percorsi di mobilitazione è stato tutt’altro che semplice. In una società sempre più disabituata all’azione politica, alla partecipazione pubblica e persino alla rivendicazione dei propri diritti fondamentali, la Palestina è diventata simbolo di resistenza.
Gli anni che ci lasciamo alle spalle sono stati segnati da una profonda deresponsabilizzazione sociale e da un clima securitario promosso dal governo, che ha intimidito ampie fasce della popolazione, private – di fatto – di ogni spazio di dissenso.
La Palestina e la sua lotta di liberazione, la profonda ingiustizia storica che questa terra vive, hanno rotto un equilibrio ormai consolidato nel paese e hanno dimostrato che non basta essere di supporto alla lotta, non basta essere solidali: bisogna rompere i meccanismi di potere che da quest’altra parte, in Occidente, regolano la vita e la morte di chi vive fuori da questi confini.
Fin dall’inizio abbiamo sottolineato la necessità di attaccare il nemico in casa nostra: un governo complice di genocidio, che promuove un programma di riarmo europeo, guerrafondaio, allineato e servo della NATO e degli Stati Uniti.
Gli scioperi che hanno preceduto il 4 ottobre, quello del 22 settembre e del 3 ottobre, sono stati emblematici: per la prima volta, dopo anni, hanno preso parola i lavoratori e le lavoratrici di questo paese. Un evento storico, che ha messo spalle al muro il governo, balbettante di fronte a una forza simile e alla determinazione di un paese che inizia a farsi sentire.
Giorgia Meloni, in risposta, ha accusato i lavoratori e le lavoratrici che hanno scioperato, ridicolizzandoli con la storiella del “weekend lungo”, delegittimando un’immensa azione collettiva. Ma evidentemente non sa che scioperando vengono detratti soldi dalla busta paga o, al contrario della stragrande maggioranza di questo paese, non sa cosa significa vivere nella crisi, essere costretti ogni mese a tagliare spese essenziali per una famiglia, per un singolo.
Quei lavoratori e quelle lavoratrici, compiendo un sacrificio con piena consapevolezza, sapevano benissimo che sarebbe servito, che non sarebbe stato inutile.
Inoltre, con la partenza della Global Sumud Flotilla, la più grande operazione umanitaria della storia contemporanea, avevamo tuttɜ gli occhi puntati sui nostri cellulari per seguire l’avanzata delle navi verso Gaza; questo, insieme al lavoro che da anni portiamo avanti sui nostri territori, ha fatto sì che il 22 settembre e il 3 ottobre quel “qualcosa” potesse finalmente arrivare.
Abbiamo dimostrato al mondo intero che esistiamo ancora, che non abbiamo più intenzione di essere nuovamente relegati ai margini della società e che, soprattutto, siamo consapevoli di detenere un potere talmente grande da poter bloccare un paese e mettere in difficoltà il governo. Abbiamo dimostrato che, quando chi è la reale forza produttiva di questo paese decide di scendere in campo, suona un’altra musica.
Non possiamo non considerare l’importante ruolo svolto dai sindacati di base e dalle organizzazioni che fino ad oggi hanno tessuto la tela, nonostante le difficoltà e i duri colpi. Solo un movimento organizzato, che parla e si fa massa, può raggiungere risultati decisivi come questo.
La bellissima giornata del 4, però, non può farci adagiare sugli allori; anzi, è proprio ora che non dobbiamo e non possiamo fermarci. Il genocidio continua e, purtroppo, le armi che vengono usate contro il popolo palestinese recano ancora la scritta “Made in Italy”.
Riflettiamo, incontriamoci, dibattiamo, mobilitiamoci: sono questi i nostri compiti in questa fase storica. È solo puntando il dito contro i nostri stessi governi che possiamo arrecare un danno reale anche al regime sionista di Israele e che possiamo mandare un messaggio ai nostri fratelli e sorelle palestinesi: non siete soli.
Abbiamo una forte necessità di costruire, di porci come organizzazioni capillari che attraversino i luoghi del lavoro, della produzione, del sapere, della socialità e di elaborare percorsi politici che, a partire da casa nostra, diano un segnale a chi oggi pensa di essere invincibile: scriviamo una nuova storia, con le nostre mani e con il nostro coraggio.
Palestina libera!