Negli ultimi due mesi negli USA si sono registrati 30 milioni di disoccupati, con un boom di 20,5 milioni in più nel solo mese di aprile. Un fatto clamoroso. E, allo stesso tempo, drammatico.
L’aumento della disoccupazione non è fenomeno prettamente statunitense: in Canada si contano 2 milioni di disoccupati in più ad aprile, con un tasso di disoccupazione che raggiunge il 13%; in Irlanda, paese spesso portato a modello per i più “indisciplinati” Stati del Sud Europa, si è passati dal 4,8% al 28,2%, un tasso che raggiunge addirittura il 52,8% tra i giovani tra i 15 e i 24 anni. Senza contare quelli che godono di ammortizzatori sociali, che secondo l’ex Ministro Tory Heseltine potrebbe esser definita come “una forma di disoccupazione mascherata”.
Negli USA, tuttavia, la situazione è particolarmente allarmante. Non si tratta solo di numeri assoluti, che fanno paura. Perché se è vero che l’assenza di lavoro è parzialmente coperta con gli ammortizzatori sociali messi in campo dal governo Trump – che in alcuni casi superano addirittura quanto guadagnato da chi era “on minimum wage”, rendendo palese quanto bassi fossero i salari in alcuni settori e per alcune fasce di lavoratori – ci sono altri problemi che vengono alla luce. Per come è costruito il sistema statunitense, in primis la perdita del lavoro colpisce immediatamente il diritto alla salute.
Circa la metà dei lavoratori statunitensi, infatti, ottiene una qualche forma di assicurazione sanitaria attraverso il lavoro, pagando in media la sonora cifra di 20.000$.
Ma cosa succede se il lavoro lo perdi? Sei nei guai. Perché, in virtù della Cobra Law, approvata negli anni ‘80, puoi continuare a godere della copertura sanitaria, ma solo se riesci a pagare la tua vecchia quota, ma anche quella che quando lavoravi veniva versata dall’azienda. Per molti lavoratori e molte lavoratrici un’impresa praticamente impossibile.
Di fatto, dunque, perdere il lavoro significa perdere il diritto alla salute.
Che poi, a rigore, diritto non è, perché si può definire “diritto” qualcosa che devi pagare per ottenere? Il nesso che lega posto di lavoro e salute negli Stati Uniti è estremamente preoccupante. Per fortuna, i sistemi europei, e quello italiano tra essi, funzionano differentemente.
Tuttavia, c’è un forte elemento di preoccupazione che si insinua da anni e che passa attraverso la stipula di contratti tanto nazionali quanto aziendali: il welfare aziendale. È interessante ascoltare le motivazioni dei lavoratori e delle lavoratrici favorevoli a questo strumento quando è in merito a possibili spese mediche:
la sanità non funziona, costa e questo “benefit” permette a me e alla mia famiglia di avere diritto alle cure e all’assistenza che potrebbe servirmi.
Il punto sta tutto lì: il “welfare aziendale”, così come le assicurazioni private statunitensi, sono tanto più appetibili quanto peggio sta messo il nostro diritto alla salute. Non basta sia formalmente garantito, lo stiamo imparando a caro prezzo durante questa pandemia. Servono strutture adeguate e distribuite capillarmente sul territorio, operatori sanitari formati e in numeri sufficienti, rifornimento di dispositivi e macchinari medicali che troppo spesso mancano e, anzi, quasi sempre non c’è alcuna capacità produttiva da parte del nostro Paese.
Il welfare aziendale può apparire strumento positivo per i lavoratori nel breve periodo. Il tranello sta nel fatto che è una trappola buttata lì per disarticolare lo Stato sociale, per privatizzare e per far sì che anche i diritti costituzionalmente garantiti non siano più tali, ma semplici merci da acquistare sul mercato.
Ovviamente per chi i soldi li ha. Per tutti gli altri c’è l’italica arte d’arrangiarsi.